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Il ritorno e la metamorfosi: quando il paese che ami ti riscrive l’anima di Luigi Palamara

Il ritorno e la metamorfosi: quando il paese che ami ti riscrive l’anima
di Luigi Palamara


Reggio Calabria 21 aprile 2025. Esattamente dieci anni fa, il 21 aprile 2015, tornavo nel mio paese natale: Roccaforte del Greco. Era una giornata fredda, avvolta da una nebbia spessa come il velo del tempo che mi separava da quella terra. Eppure, il mio cuore impazziva di gioia. Dopo anni, stavo tornando a casa. La casa che mi ha visto nascere, crescere, e poi partire.

Quel giorno non fu solo un ritorno fisico. Fu un rientro nell’anima. La nebbia sembrava abbracciarmi, come una carezza della mia terra. E c’era un segno, potente e profondo: proprio quel giorno ricorreva il centenario della nascita di mio padre, Peppino. Un caso? Forse no. Forse era il richiamo del sangue, della memoria, del destino.

Sentivo il respiro dei miei genitori. Li sentivo vicini. E per un attimo sono tornato bambino.

Ma i ritorni, si sa, non sono mai lineari. Dopo l’iniziale euforia, ho cominciato a scontrarmi con una realtà diversa da quella che avevo lasciato. Riallacciare i rapporti non è stato facile. Ho incontrato ostilità, indifferenza. Persone cambiate, relazioni svuotate. Eppure, in mezzo a tutto questo, ho trovato anche chi mi ha accolto con affetto vero, incondizionato.

Caterina è stata come una madre. Ciccio, come un fratello. Due fari nella nebbia. E poi Andrea, Michele, Totò, Francesco, Paolo, mio compare Nziato… Persone che hanno saputo conservare, nonostante tutto, il senso del rispetto, della lealtà, dell’amicizia. Valori che oggi sembrano rari, ma che in loro ho ritrovato con forza.

Non sono mancate le delusioni. Anzi. C’è chi ha colto la mia presenza come un’occasione per cercare di umiliarmi. Ma chi è cresciuto tra le rocce dell’Aspromonte non si piega facilmente. La mia reazione è stata l’orgoglio. E alla fine, chi ha cercato di abbattermi si è ritrovato con il nulla in mano.

Sono stati mesi intensi, duri, ma formativi. Ho cercato di dare tutto, anche quando non serviva. Persino quando ho organizzato l’ultimo torneo di calcio – fratturandomi il polso sinistro – l’ho fatto per tenere vivo uno spirito collettivo che andava spegnendosi. Un’ultima vampata di vita condivisa.

E lì, proprio in quella frattura tra ciò che ero e ciò che non riuscivo più a essere, ho capito qualcosa. Ho compreso che non sempre il talento basta. Che puoi sapere fare mille cose, ma sentirti comunque inutile se il contesto non ti riconosce. E proprio in quella sensazione di vuoto, si è aperto per me un nuovo orizzonte. Un nuovo sguardo sulla vita.

Credevo di tornare per cambiare il paese. E invece è stato il paese a cambiare me.

Oggi sono quello che l’Aspromonte ha voluto che diventassi. Un figlio devoto, rispettoso, consapevole. Non cerco più applausi né rivincite. Porto dentro di me quella stagione come si porta una cicatrice preziosa: fa ancora un po’ male, ma ricorda che si è vissuto intensamente.

Grazie, terra mia.

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