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L’illusione dei colti: perché la politica non si misura in lauree


C’è un’illusione che resiste tenacemente in certi ambienti: che la politica sia appannaggio esclusivo dei cosiddetti colti, dei benestanti, dei titolati. È una suggestione antica, che riaffiora ogni volta che il dibattito politico si svuota di contenuti reali e si rifugia nell’attacco personale. Ma la realtà è un’altra, più cruda e concreta.

La politica non la fanno le pergamene appese al muro. La politica vera — quella che vive nelle urne, nelle strade, nei consigli comunali — la fa chi prende voti. Chi sa parlare al popolo, chi riesce a incarnare bisogni, disagi, visioni. Il curriculum, lungo o breve che sia, non lo vota nessuno.

La storia è piena di esempi: i più grandi leader, quelli capaci di imprimere svolte storiche, raramente erano accademici. Alcuni addirittura disprezzati dall’élite culturale del loro tempo. Eppure, erano capaci di accendere movimenti, smuovere coscienze, costruire o distruggere imperi.

Quando l’opposizione si attacca al titolo di studio per delegittimare l’avversario, mostra tutta la propria debolezza. È la polemica dei vuoti, di chi non sa articolare una visione alternativa e si rifugia nel livore di chi non accetta la sconfitta. È un atteggiamento non solo sterile, ma profondamente antidemocratico.

Il metro con cui si misura un politico è uno solo: la sua azione amministrativa. Le sue scelte, la sua capacità di trasformare le promesse in atti, le sue risposte alla vita reale dei cittadini. Tutto il resto è fumo. Elitario, snob, e spesso anche strumentale.

Chi pensa che basti un master per guidare un popolo, non ha capito niente di politica. E, forse, nemmeno di cultura.

Luigi Palamara

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