@luigi.palamara Solo dieci anni a Beretta per l’omicidio Bellocco. Quando uccidere non basta più a indignare Il giorno in cui la giustizia smise di pesare il sangue EDITORIALE di Luigi Palamara Andrea Beretta e Luca Lucci, volti noti delle curve più estreme di Milano — uno leader della Nord interista, l’altro capo della Sud rossonera — sono stati condannati a dieci anni ciascuno. Il primo per aver ucciso con crudeltà Antonio Bellocco, il secondo per aver commissionato il tentato omicidio di un ex ultras del Milan, Enzo Anghinelli. La giustizia italiana, nel primo atto di una vicenda dai contorni torbidi e infetti, ha messo sullo stesso piano chi ha colpito per uccidere e chi ha orchestrato da lontano. Una tragica simmetria giudiziaria. Ed è qui che si rompe qualcosa. C’è un giorno, nella storia di un Paese, in cui la giustizia abdica. Si ritira nell’ombra, lasciando in sua vece un’imitazione sbiadita di sé. Per la famiglia Bellocco, quel giorno è arrivato con la sentenza che ha condannato Andrea Beretta a soli dieci anni di carcere. Non per furto, non per lesioni. Ma per omicidio volontario. Beretta ha confessato. Ha detto: "Ho ucciso per paura". Come se il timore potesse scusare la lama. Come se il panico autorizzasse l’annullamento di una vita. Come se bastasse una confessione — ben calibrata, magari accompagnata da un pianto misurato — a scendere a patti con la morte. E lo Stato ha accettato. Dieci anni: lo stesso tempo che impiega un bambino ad attraversare la scuola dell’obbligo. Lo stesso tempo che può segnare una pausa di carriera. Dieci anni per spegnere un’esistenza. Il paradosso è completo se si guarda all’altro capo della bilancia: Luca Lucci, mandante di un tentato omicidio, ha ricevuto la stessa pena. L’omicida e il mandante trattati allo stesso modo. Come se la lama nella carne avesse perso peso specifico. Come se il sangue versato fosse un elemento secondario. E qui le parole degli avvocati Giacomo Iaria e Antonella Modaffari, che rappresentano la famiglia Bellocco, suonano come un grido civile: > «È una sentenza che umilia la vita. Una giustizia senza coraggio, che manda il messaggio sbagliato: basta pentirsi per cavarsela con poco.» Non è solo una questione di diritto. È una questione di esempio. La giustizia — quando è davvero tale — è educazione collettiva, è monito, è costruzione etica. Ma qui pare ridotta a un formalismo debole, a un compromesso. Si risparmia il dibattimento, si sceglie l’abbreviato, si ottiene lo sconto. Il sangue scivola tra le pieghe procedurali. Ancora più amaro è il dettaglio, apparentemente tecnico ma moralmente devastante: il risarcimento riconosciuto solo a moglie e figli. La madre di Antonio Bellocco, figura spezzata dal dolore, esclusa dal ristoro. > «Anche il dolore, pare, ha una gerarchia», osservano con amarezza Iaria e Modaffari. La vicenda, chiusa in primo grado davanti al GUP di Milano, lascia dietro di sé una ferita culturale prima che giuridica. Un’idea inquietante si insinua tra le righe: che la giustizia stia imparando a relativizzare il male, ad attenuarlo, a trattarlo come sfumatura. Ma l’omicidio non è mai una sfumatura. È la negazione più brutale di ogni diritto, è il buco nero dell’umanità. Trattarlo con clemenza, per ragioni emotive o strategiche, significa trasformare la giustizia in un alibi, non in un deterrente. E allora sì, questa sentenza somiglia a un incoraggiamento. Un silenzioso via libera a risolvere i conti nel buio, tra spalti e pugnali, purché poi si sappia piangere bene. La giustizia non può essere commutata in empatia selettiva. Non può piegarsi al contesto. Deve pesare i fatti, non i volti. E se lo Stato accetta che uccidere possa valere quanto ordinare, che il pianto possa pesare quanto il sangue, allora non è più giustizia. È solo clemenza codificata. In un Paese che voglia ancora definirsi civile, questo — e non l’omicidio — è il più imperdonabile dei delitti.
♬ suono originale - Luigi Palamara
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