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Il Presidente ferito e il diritto alla parola: Occhiuto tra fango e orgoglio calabrese

Il Presidente ferito e il diritto alla parola: Occhiuto tra fango e orgoglio calabrese

Editoriale di Luigi Palamara


Roberto Occhiuto non è solo un politico sotto inchiesta. È, in questi giorni, il corpo vivo di un’Italia che si dibatte fra due fuochi: la legittima sete di giustizia e la torbida tentazione del linciaggio mediatico. La sua conferenza stampa, seguita a un’apparizione televisiva più emotiva che strategica, ha mostrato un uomo che, prima ancora di difendere la propria posizione giudiziaria, ha voluto difendere una postura esistenziale. Non è un dettaglio.

“Mi sento stuprato”, ha detto Occhiuto. Parola feroce, spigolosa, destinata a dividere. Ma non è una caduta di stile: è una rivelazione. In un’Italia dove la politica si è abituata a ingoiare il veleno in silenzio per calcolo e convenienza, quel verbo, violento e scomodo, è lo schiaffo di chi ha deciso di non morire in silenzio. È la confessione brutale di una percezione: quella di chi si sente spogliato non solo della propria reputazione, ma del proprio onore, e lo dice a voce alta. Una forma di ribellione personale, più che istituzionale.

“Si dice ‘innocente fino a prova contraria’, ma si legge ‘colpevole fino a conferenza stampa’”. Cerchiamo nell’anima del gesto il riflesso di una società ferita, dove il bisogno di credere nella purezza si scontra con la facilità con cui si sporca ogni cosa.

Occhiuto parla, e nel farlo non solo si difende: rivendica. “Governo una terra complicata, ho buttato sangue”. Ed è proprio questa affermazione che introduce la seconda chiave di lettura: la Calabria. Regione dura, intrisa di diffidenza, dove chi governa è visto o come un miracolo o come un impostore. Il presidente tenta di sottrarsi alla logica binaria, chiedendo di essere giudicato per ciò che ha fatto — e per ciò che ancora vuole fare, visto che conferma la volontà di ricandidarsi.

Non c’è retorica da martire, ma nemmeno il freddo distacco dell’uomo di potere: c’è rabbia, c’è sfida, c’è persino ironia (“forse qualche avvocato comunista...”). La comunicazione di Occhiuto è viscerale, imperfetta, ma per questo anche autentica. E non è un dettaglio che sia lui a cercare i magistrati, e non il contrario. In un’Italia che ha conosciuto troppo spesso il silenzio omertoso e le conferenze scritte dai legali, questa è una frattura nel protocollo.

Ma non basta la parola per riabilitare l’onore, né l’indignazione per sciogliere i nodi della giustizia. Saranno le carte, le intercettazioni, i fatti a dire se questa è una persecuzione o una corruzione travestita da trasparenza. E saranno i calabresi, come lo stesso Occhiuto auspica, a scegliere se credere ancora nel suo progetto o chiudere il capitolo.

L’Italia, intanto, resta sempre la stessa: un Paese dove si scivola con rapidità fulminea dal trono all’abisso, dove la verità è spesso un urlo che nessuno ascolta, coperto dal frastuono del sospetto.

E allora, mentre il presidente chiede di parlare, la domanda da porsi è un’altra: siamo ancora capaci di ascoltare?

Occhiuto non è ancora né colpevole né innocente. È, oggi, un uomo che reclama il diritto di spiegarsi. In un Paese maturo, dovrebbe essere un diritto inviolabile. Ma l’Italia, lo sappiamo, ama prima indignarsi e poi giudicare. Con o senza prove.

Luigi Palamara
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