Il risveglio della Calabria ferita. Quando il dolore diventa popolo
di Luigi Palamara
C’è un momento in cui un popolo si guarda allo specchio e non si riconosce più. Non per colpa sua, ma perché troppo a lungo altri hanno parlato al suo posto, lo hanno tradito, ignorato, reso invisibile. Quel momento è arrivato per la Calabria, ed è accaduto il 10 maggio 2025, in una piazza che non chiedeva, pretendeva. Non più vittima, ma soggetto collettivo. Non più spettatrice, ma artefice del proprio destino.
Non era solo una manifestazione, quella di Piazza Prefettura a Catanzaro: era un atto fondativo, il battesimo civile di una nuova consapevolezza. Migliaia di donne e uomini, giovani e anziani, sindaci e sacerdoti, medici e familiari di vittime della mala sanità. Tutti con una sola voce, quella del diritto calpestato, dell’ingiustizia normalizzata, della ferita ancora aperta.
Quella piazza ha espresso una potenza morale rara, che in Italia abbiamo visto poche volte: nelle Madri di Plaza de Mayo, nei movimenti per l’acqua pubblica, nei giorni di Genova. È la forza di chi non ha nulla da perdere se non la propria dignità. E che per questo non accetta più silenzi, connivenze, ipocrisie.
Perché la verità, oggi, è inaccettabile: in Calabria la sanità non solo non cura, ma uccide. Uccide le persone, ma anche la loro dignità. E lo fa soprattutto con i più poveri, con chi non può permettersi la "fuga sanitaria", con chi non ha soldi per curarsi altrove, con chi resta e attende — un’ambulanza che non arriva, un medico che non c’è, un reparto chiuso. E spesso, non attende solo cure: attende giustizia, attende risposte, attende umanità.
I volti dei morti — Federica, Serafino, Flavio, Maria — non erano semplici nomi evocati: erano testimoni scomodi, presenze invocate con amore e rabbia. La loro assenza ha riempito la piazza più della folla. E con loro, la voce di chi è rimasto e ha deciso di non fuggire. Perché c’è una Calabria che non emigra, che non cede alla rassegnazione, che non si vende ai poteri forti. È la Calabria che costruisce elisuperfici intitolate ai bambini che non ce l’hanno fatta. È la Calabria che chiede giustizia e non clientelismo, verità e non narrazione.
La sanità calabrese è diventata un deserto con oasi private. Ma la salute, lo dice la Costituzione, non è un privilegio per chi può pagare: è un diritto universale. E allora questa battaglia non riguarda solo un territorio, ma l’idea stessa di Repubblica.
Oggi non possiamo più far finta di nulla. Perché, come ha detto Caterina Perri, “l’indifferenza è violenza”. E la politica, se non ascolta queste parole, ne è complice.
C’è una responsabilità che pesa su ogni amministratore, commissario, dirigente, presidente. Ma c’è anche una speranza che si è accesa e che non si spegnerà. È quella di un popolo che ha scelto di rialzarsi, nonostante tutto.
Quella piazza ha già vinto: perché ha ricordato a tutti noi che la sanità non è un affare, ma un bene comune. E che nessuna Regione, neanche la più martoriata, è condannata al silenzio. Quando un popolo inizia a parlare, la storia cambia. E la Calabria, stavolta, ha parlato forte. E non smetterà più.
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