𝐒𝐩𝐚𝐥𝐥𝐞𝐭𝐭𝐢 𝐞 𝐥’𝐈𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚 𝐬𝐢 𝐬𝐞𝐩𝐚𝐫𝐚𝐧𝐨!
Fine di un’illusione collettiva
Editoriale di Luigi Palamara
Dopo l'eliminazione precoce dagli Europei, Luciano Spalletti non è più il commissario tecnico della Nazionale italiana.
È stato lui stesso ad annunciare il proprio esonero in conferenza stampa, in quella strana liturgia laica dove si celebrano i funerali sportivi degli eroi che non ce l'hanno fatta. Un commiato senza lacrime, ma con quel senso di disillusione che in Italia conosciamo fin troppo bene.
Come ogni divorzio che si rispetti, anche questo è figlio di un innamoramento eccessivo.
In fondo, siamo un popolo che si innamora in massa. Ci siamo innamorati di Spalletti come ci si innamora di una rivoluzione: all’improvviso, con slancio emotivo, dimenticando la fatica della realtà.
Perché Spalletti, con i suoi modi sghembi e i suoi aforismi campagnoli, non era solo un allenatore. Era il simbolo della riscossa, la faccia contadina del calcio pensato, l’antidoto popolare al “prandellismo” estetico o al “mancinismo” glamour.
Ma le rivoluzioni non durano. Non possono. Si dissolvono quando l’innamoramento si scontra con la gestione quotidiana, con i limiti strutturali, con la resistenza passiva del sistema.
E così è stato. Spalletti ha trovato una Nazionale smarrita, una federazione priva di visione e una stampa pronta a bruciare ciò che aveva appena osannato.
L’Italia è sempre il suo peggior nemico
L’Italia non perdona mai il fallimento di chi ha promesso il riscatto.
Lo fa con il ghigno del cinico, non con la delusione dell’innamorato.
Spalletti è stato esonerato, ma è l’intero sistema che si è autoassolto con un gesto teatrale. Come se bastasse togliere un volto per lavare la mediocrità strutturale che ci affligge.
Il calcio, in questo Paese, è lo specchio più fedele dell’Italia profonda: approssimativa, pasionaria, allergica alla continuità.
Pretendiamo di vincere con ciò che non abbiamo: idee chiare, progettualità, meritocrazia.
E affidiamo sogni collettivi a figure solitarie, sperando che basti un uomo a rifare un popolo.
Spalletti ha avuto il torto di crederci.
Ha provato a dare una grammatica a una squadra che parlava dialetti diversi, a cucire un’idea su un corpo slabbrato.
Ma la verità è che la Nazionale non è una squadra. È una nostalgia.
È il ricordo di qualcosa che abbiamo smesso di essere: coesi, coraggiosi, affamati.
E come tutte le nostalgie, ci tiene fermi. Sognanti e immobili.
Un addio che riguarda tutti
Ecco perché non è solo Spalletti ad andarsene.
È l’ennesimo pezzo di un’illusione collettiva che si sbriciola sotto il peso delle aspettative.
A chi verrà dopo non basterà essere preparato o visionario.
Dovrà saper sopravvivere al nostro bisogno infantile di eroi.
Dovrà capire che, in Italia, l’allenatore è un ruolo mistico e masochista: deve vincere senza potere, innovare senza rompere, guidare senza essere troppo visibile.
Un alchimista del nulla.
Il calcio italiano oggi non ha bisogno di altri taumaturghi.
Ha bisogno di tempo, serietà, strutture e verità.
E forse – anche questo ci insegna Spalletti con la sua uscita malinconica – la prima verità è sapere quando è il momento di alzarsi e dire:
“Non vi merito. Ma nemmeno voi meritate me.”
Luigi Palamara
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