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Omicidio Bellocco. Giustizia a due velocità: quando l’omicidio diventa collaborazione

Giustizia a due velocità: quando l’omicidio diventa collaborazione
Editoriale di Luigi Palamara


C’è una nuova liturgia nelle aule dei tribunali italiani. Una liturgia che non celebra la verità, ma la convenienza. Il caso Beretta ne è l’ultimo, sconcertante, esempio. Un omicidio, quello di Antonio Bellocco consumato in una serata lombarda come tante, ha ricevuto il dono di una richiesta di pena che, in altri tempi, avrebbe fatto sobbalzare le toghe più inamidate: nove anni. Appena nove anni. Nemmeno una decade per spezzare una vita.

Una richiesta di condanna che, più che una sentenza, pare un prezzo di saldo. Ed è qui che nasce il malessere profondo. In questo Paese, l’omicidio – atto definitivo, irreparabile – può essere scontato con meno di quanto si paghi un reato fiscale reiterato. Ma ciò che inquieta di più non è la pena in sé, bensì il principio che la sorregge: collabori, confessi, racconti – e allora lo Stato chiude un occhio. A volte entrambi.

Ogni società costruisce i propri miti fondativi attorno a figure sacrificali. Oggi pare che, nel nostro rito giudiziario, la vittima non sia più il fulcro sacro da proteggere, ma un accessorio negoziabile del processo. Morti di serie A e morti di serie B, in base alla tessera che si portava nel portafoglio o alla curva che si frequentava. Chi muore da criminale viene declassato anche nella memoria, nell’eco della giustizia. Eppure, un morto resta un morto. E l’omicidio, un crimine.

Stiamo assistendo a una metamorfosi inquietante: il giudice non è più il custode del diritto, ma il ragioniere dell’opportunità. L’omicida non è più un dannato, ma un debitore da incentivare. Così il pubblico ministero – che un tempo indossava l’armatura del cinismo per restare impermeabile al dolore – oggi si fa tenero, quasi comprensivo, se l’assassino si dice pentito, se offre in cambio qualche nome, qualche dettaglio utile a intessere trame più grandi.

Ma può la giustizia svendersi per un pugno di confidenze? Possiamo davvero tollerare che lo Stato si sieda al tavolo con chi ha preso una vita, trattando il prezzo della sua libertà come fosse una partita a scacchi?

La verità è che in questo Paese ci si abitua troppo in fretta a tutto. Alla corruzione, alla mafia, all’omicidio. Persino alla clemenza ingiustificata. I morti, invece, non si abituano. Non hanno voce. Non hanno padroni. E soprattutto, non dovrebbero avere padrini.

Ecco allora il punto: non è solo una questione di diritto, ma di morale civile. La pena non è vendetta, certo. Ma dev’essere giustizia. E la giustizia non può essere trattata come una compravendita in saldo tra pentiti e magistrati. Se così fosse, ci ritroveremmo a vivere in un’Italia dove il crimine non paga... ma sconta poco. E dove l’onore delle vittime viene sepolto due volte: una con la morte, l’altra con l’oblio della legge.

Giustizia non è vendetta, ma proporzione. E ogni volta che la bilancia pende dal lato sbagliato, è l’intera civiltà che rischia di inclinarsi con essa.

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